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Bhagavadgītā – VII, 24, 25, 26:

“Gli stolti ritengono che io, che sono immanifesto, abbia poi assunto una forma manifesta; e, così ritenendo, non conoscono la mia natura suprema, indefettibile, senza superiore.

Non sono evidente a tutti, occultato come sono dall’illusione e dal suo potere. Questo mondo offuscato non mi conosce, me, l’innato, l’indefettibile.

Gli esseri passati, quelli presenti e quelli futuri, io li conosco, o Arjuna; ma nessuno conosce me.” –

Proporrei di considerare Vishnu, che qui parla per bocca di Krishna, come, a sua volta, un avatar dell’immediato: ciò in cui si è sempre immersi ma che resta sempre sconosciuto, non per insufficienza di informazioni o di intelletto ma per necessità; perché per quanto riguarda l’immediato, comprendere e fraintendere sono opposti che coincidono. La mediazione del pensiero, cioè, esclude per necessità che si possa cogliere ciò che non è mediato, eppure questo è, paradossalmente, l’oggetto del pensiero in generale. Distaccarsi da una porzione del mondo, vederla e “possederla”: questo è il pensiero ma allo stesso tempo si tratta di un necessario illusionismo, ecco il potere dell’illusione cui accenna Krishna. “Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste, siamo tratti in inganno: ciò che vediamo, lo lasciamo; ciò che non vediamo, lo portiamo con noi.” – dirà Eraclito in un altro punto dell’Asia.