144.

Bhagavadgītā – VII, 24, 25, 26:

“Gli stolti ritengono che io, che sono immanifesto, abbia poi assunto una forma manifesta; e, così ritenendo, non conoscono la mia natura suprema, indefettibile, senza superiore.

Non sono evidente a tutti, occultato come sono dall’illusione e dal suo potere. Questo mondo offuscato non mi conosce, me, l’innato, l’indefettibile.

Gli esseri passati, quelli presenti e quelli futuri, io li conosco, o Arjuna; ma nessuno conosce me.” –

Proporrei di considerare Vishnu, che qui parla per bocca di Krishna, come, a sua volta, un avatar dell’immediato: ciò in cui si è sempre immersi ma che resta sempre sconosciuto, non per insufficienza di informazioni o di intelletto ma per necessità; perché per quanto riguarda l’immediato, comprendere e fraintendere sono opposti che coincidono. La mediazione del pensiero, cioè, esclude per necessità che si possa cogliere ciò che non è mediato, eppure questo è, paradossalmente, l’oggetto del pensiero in generale. Distaccarsi da una porzione del mondo, vederla e “possederla”: questo è il pensiero ma allo stesso tempo si tratta di un necessario illusionismo, ecco il potere dell’illusione cui accenna Krishna. “Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste, siamo tratti in inganno: ciò che vediamo, lo lasciamo; ciò che non vediamo, lo portiamo con noi.” – dirà Eraclito in un altro punto dell’Asia.

 

 

 

 

 

143.

Nella radice della filosofia è già la sua fine – La hybris era già vittoriosa nell’esistenza stessa della filosofia greca col suo sfrenato agonismo argomentativo. In quel contesto, voler dimostrare la pericolosità della hybris, della sfrenatezza, era già segno di qualche sfrenatezza, di un dissidio interno. Per questo il concetto di hybris era da riportare su un piano religioso e morale, com’era naturale per i greci arcaici: “morale” è anche qualcosa di fondante, qualcosa cioè a partire dal quale il discorso e l’azione possono iniziare ma che rimane fuori discussione. Discutere di certe cose, d’altra parte, è immorale per le conseguenze intrinseche dell’atto che consistono nella rovina di chi discute.

 

 

 

142.

Sulla dea orfica

Mnemosyne mette a contatto due sfere apparentemente esclusive: quella della conoscenza e quella dell’immediatezza. Essa è principalmente dea della conoscenza in quanto si ha conoscenza sempre e solo del passato, mentre l’immediato è fuori da ogni determinazione, compresa quella cronologica. Quando l’immediato è colto nella rappresentazione (che è pure nell’etimo “ri-presentazione”) è già calato nel passato e, per ciò, non più immediato ma cronologicamente mediato, così come è imbrigliato da mille altre determinazioni. In tal modo  Mnemosyne indica pure quella sfera dell’immediatezza, altrimenti irrintracciabile. Seguire la sua traccia è quindi l’unico modo, per l’uomo della conoscenza, di tornare lì dove da sempre è perché la rappresentazione mostra in modo enigmatico che vi è stato.

Mnemosyne è allora la dea della consapevolezza dell’iniziato di far parte della schiera dei beati: per il suo tramite l’iniziato comprende la propria divinità e questo in entrambi i mondi, terreno e ultraterreno. In un senso lineare, discorsivo, Mnemosyne permette all’iniziato di ricordare, nell’oltretomba, il passato, prima che nascesse e così a ritroso fino allo stato di divinità, poi perduto con la caduta nella mortalità. D’altra parte questo mito è un’allusione a quella natura premortale che è eterna, ossia atemporale. Qui ci si avvede, si ricorda, che in ciò si è già stati anche nella vita attuale, quindi che letteralmente si è eterni. Il ricordarsi qualcosa di non rappresentabile, o meglio il ricordarsene attraverso una rappresentazione enigmatica (io mortale, sono stato eterno, dunque sono eterno), significa infine tornarne a contatto.

 

 

 

 

 

140.

 
Prima di sferzare i costumi o riderne, il moralista odierno ha un compito preliminare da assolvere: determinare, posto che qualcosa avanzi, quanto nella morale non è che una manifestazione della specie.

 

 

 

 

139.

 

Pensare è una cosa, procreare un’altra, i valori sociali sono una cosa, quelli individuali un’altra. Bisogna avere il coraggio dei propri valori per sé, non per gli altri, e volerli per sé, non per gli altri, come pecore tiranniche. Siate lupi o crepate, o siate pecore una volta per tutte e non rompete i coglioni.

 

 

 

138.

 

Dei due modi di dissolvere l’identità personale.  – Negativamente, come riduzione a meccanismo, a ingranaggio anonimo e sostituibile, apparentemente privo di esigenze emotive o di storia personale, così dall’impiegato all’internato. Positivamente, come chi contempla il proprio flusso di coscienza come farebbe con un oggetto fisico, o la propria storia personale come una rappresentazione teatrale senza morale, così del saggio e del grande artista.